di Enzo Sorbera

L’identità comunista e le differenze, interrogativo postomi da Carlo Sacco. Si tratta di un discorso un po’ complicato e forse non interessante per i bloggers. Comunque, provo a riassumere quanto dovrebbe occupare uno scaffale di libreria.

Partiamo da un qualcosa, diciamolo A. Immediatamente, questo A è riconoscibile come A, cioè posso affermare che “A è A”. Questo, di colpo, traccia una distanza, perché affermo insieme che “A non è (solo) A” ma è tale perché anche “è diverso da..”.

L’identità rivelata dalla predicazione “è” traccia quindi un solco, traccia un movimento per cui l’ente realizza la propria identità in un processo che è doppio: “essere” e “esser differente da”. La predicazione “A è A” non consente di chiudersi nella sola identità, ma obbliga alla relazione. In pratica, ogni ente può (necessariamente, cioè non può esserlo altrimenti) essere definito a partire dall’altro da sé.

Questo è un punto cruciale. Facciamo un esempio (salto a piè pari tutta una serie di ragionamenti). In “La gabbianella e il gatto”, Sepulveda descrive due movimenti: “tu sei un gatto” genera nella gabbianella un senso di identità – che sappiamo sbagliato – ma ch’è valido per lei, cioè come oggetto sociale la forma “gatto” che prende l’ente è “indebolita” come identità perché si estende a chi gatto non è (non importa che sia cosciente di non esserlo: siamo nel campo della xeno-filia o xeno-sofia); dall’altro lato, la forma “gatto” è rafforzata nella sua identità nei confronti dei Topi, cioè è fatta valere CONTRO (siamo nel campo della xeno-fobia). Xenos, colui che è straniero (ma anche “diverso”), per l’Identità, è tale perché non parla come noi, è, per definizione, “sporco”, mangia cose che noi non toccheremmo (è interessante come il registro alimentare funzioni da tabu, un discriminante spesso insormontabile).

E’, in termini freudiani, Unheimlich, perturbante (si badi che Freud lo tratta come un sostantivo). Qui si innesta la tradizione “spettrale” del marxismo (si rammenti l’avvio del “Manifesto”), l’assunzione del diverso, del debole, del povero, di chi è oppresso come registro di un’identità im-possibile, in-fame (nel senso borgesiano del termine), che fa bandiera della differenza (che non è solo alterità, ma scarto, residuo) e, pertanto, non è più – non può essere più – identitaria, ma plurale, dispersa. In quanto ha a che fare con gli “scarti”, mi piace pensare al pensiero comunista come a un pensiero bambino (con tutta la gaiezza che mette un bambino nel gioco). Del resto, Marx stesso parla di un homo novus, tale perché radicalmente nuovo.

Qui si innesta anche la riflessione blochiana (Ernst Bloch)sul principio-speranza: solo la tendenza che si fa latente alimenta la spirito dell’utopia. Per questo, “identità comunista” è un ossimoro o, peggio, sa di gulag.